martedì 22 aprile 2014

Mutations

Vijay Iyer

Ecm


Anche per il pianista Vijay Iyer arrivano le lusinghe di casa Ecm e la consueta produzione di Manfred Eicher. Nasce così Mutations, suite composta nel 2005, qui eseguita con un quartetto d’archi e incastonata fra tre composizioni di piano solo ed elettroniche, composte in un arco di tempo che va dal 1995 al 2013. Un altro ambito, non del tutto noto del musicista indiano, che si aggiunge alle già conosciute esperienze accanto al poeta Mike Ladd, ultima: Holding it Down: The Veterans’Dreams Project, che racconta dei sogni dei soldati americani sopravvissuti alle guerre in Iraq e in Afghanistan, di cui presto leggerete la recensione su questo blog, nonché all’esperienza in trio con Stephan Crump e Marcus Gilmore nel riuscitissimo Accellerando. Queste le produzioni più recenti di quello che è definito come un intellettuale del jazz contemporaneo che oggi, con questo cd, oltrepassa gli steccati del genere per approdare su territori dove è difficile delineare i contorni di un’espressività che si fa di alto livello ma impossibile da etichettare. Le due tracce che precedono la suite, che da il titolo all’album, ci propongono un Iyer totalmente rapito dallo strumento, impegnato a tracciare l’essenza di una sottile melodia nell’iniziale “Spelbound and Sacrosanct, Cowrie Shells and the Shimmering Sea” dall’ambient intimo in cui traspare tutta la magnificenza del pianismo di Yyer. Con la successiva “Vuln, Part.2” il nostro accosta l’elettronica di un laptop alle note del suo strumento, fino a creare un’atmosfera rarefatta in cui il pianoforte sembra viaggiare tra i meandri futuristici di una ipotetica galassia. Gli spazi appaiono senza confini e suoni proiettati all’infinito. I dieci episodi della suite “Mutetions” vengono introdotti dagli umori cameristici dispiegati dal quartetto d’archi formato da Miranda Cuckson e Michi Wianco ai violini; Karl Armbrust alla viola e Kivie Cahn-Lipman al violoncello, impinguati da inedite sonorità elettroniche. Una suite che propone un’ampia varietà di sfaccettature sonore e strutture variabili che trascinano in un ambient certamente esclusivo, dove il pianoforte del leader diventa elemento di forte interattività con il quartetto. Il combo si rivela un’entità profondamente equilibrata, capace di elevarsi sulle note di una musicalità che si fa sempre più intrigante, con il quartetto che nei sei minuti di “Automata” quinto episodio della suite, si imbatte in un irto tracciato d’avanguardia che frantuma la scatola sonora fin qui nota. I suoni elettronici si fanno più preponderanti e si viaggia dentro un inedito tunnel di suoni. Gli episodi successivi ci riportano dentro atmosfere cameristiche, costellati da passaggi in crescendo e da momenti di profonda riflessione, in un mosaico cangiante e imprevedibile. “Kernel” settimo episodio è un esercizio di variegata interattività tra il pianoforte e gli archi che si muovono come all’unisono nel successivo “Clade”. Così di episodio in episodio giunge la conclusiva “When We’re Gone” terza traccia esterna alla suite, in un contesto ancora profondamente riflessivo che chiude un album che al primo approccio non riesce a rivelare tutta la sua magnificenza ma di cui ora, dopo ripetuti ascolti, sono totalmente convinto. 


domenica 13 aprile 2014

Baida

Ralph Alessi

Ecm


Il trombettista Ralph Alessi vanta collaborazioni importanti, ad esempio con i sassofonisti Steve Coleman e Don Byron, ma sopratutto vanta una duttilità non ricorrente nel sapersi adattare ai vari linguaggi espressivi dei musicisti che chiedono il suo contributo. La produzione a suo nome lo vede ora approdato alla Ecm di Manfred Eicher con un album di raffinata fattura, in singolare equilibrio fra la lirica vocalità della sua tromba, la tessitura armonica e contrappuntistica del pianoforte di Jason Moran e la fluidità ritmica del duo: Dew Gress, contrabbasso, Nasheet Waits, batteria. Un quartetto assemblato con lucido raziocino così ben capace di dare luce abbagliante alle undici composizioni originali, tutte firmate dal leader, che compongono la selezione musicale. E' la title track a dare via con i suoi umori soffusi e intimi tra i vagiti della tromba di Alessi e fraseggi struggenti di Moran. Poi Alessi si erge a condurre e si vola in alto tra le lusinghe del suo strumento. “Gobble Goblins” rivela senza indugi il suo tema ritmico esposto all'unisono dal duo tromba-pianoforte, poi a turno, prima Alessi e di seguito Moran, si lanciano in pregevoli soli. La parte centrale propone due splendide ballate, “Sanity” e “Maria Lidya” che danno ancor più luce al lirismo di Alessi, la prima ci regala un Gress in primo piano nell'intro, la seconda una simbiosi esclusiva tra Alessi e Moran. Ammaliano le carezzevoli note della tromba in “I Go You Go” con la parte centrale tutta di Moran e sezione ritmica, mentre ci si avvia verso la fine con i chiari umori free-bop e il passo variabile di “11/1/10” episodio tra gli più articolati e stimolanti dell’intero lavoro. Album gradevole e ben fatto che prende nome dall’appellativo che la piccola figlioletta di Alessi ha dato alla sua coperta, questo lavoro si rivela con un buon compromesso tra modern jazz e free bop. 

giovedì 10 aprile 2014

Sound Form

Marco Dalpane

A Simple Lunch


Ci sono luoghi per natura deputati all’ascolto della musica dal vivo ed altri che ben si adattano a tale scopo. Di contro, a volte, può accadere di ritrovarsi ad ascoltare musica in ambienti totalmente negati a tale utilizzo. Fin qui tutto normale e risaputo, quello che sorprende invece è che uno dei musicisti più estrosi e imprevedibili del panorama musicale italiano, come il bolognese Marco Dalpane, fondatore e curatore della neo etichetta discografica A Simple Lunch, scelga di utilizzare una normalissima palestra scolastica che, nel suo sofisticato e immenso universo musicale, diventa improvvisamente un elemento complementare nel concepimento di una nuova idea espressiva. L’opera in oggetto, Sound Form, il cui sottotitolo recita: concerto per strumenti acustici e una palestra risonante è una ripresa dal vivo del concerto tenuto da Marco Dalpane presso la palestra della scuola elementare Romagnoli di Bologna il 24.11.2011. Il musicista bolognese, in totale solitudine, utilizza un pianoforte, un toy piano, una fisarmonica e delle percussioni ma soprattutto usa l’ambiente in cui è ospitato, non nel senso che lo rende adeguato al normale uso acustico per cui gli è utile, corregendone, in qualche modo e per quello che si potrebbe, i normali difetti di un ambiente nato per altre finalità. Dalpane sceglie l’esatto contrario, ovvero usa così com’è la palestra per diffondere la sua idea musicale e quindi la sua arte, sfruttando in modo positivo quegli elementi, in qualche modo negativi, come ad esempio i riverberi dei materiali della struttura della palestra. Ma c’è di più perché il nostro invita i presenti a muoversi  liberamente durante lo svolgimento del concerto proprio per fare in modo che si creano ulteriori e imprevedibili suoni-rumori. Inoltre non c’è nessun uso di sistemi elettronici al fine di creare effetti speciali ma soltanto cinque microfoni posti a distanze variabili dagli strumenti. A queste condizioni l'ascolto diventa intrigante perché ci predispone ad uno scenario sonoro del tutto inedito, una condizione in cui l'ambiente influisce in maniera decisiva nella propagazione dinamica dei suoni e nella loro timbrica. L'iniziale “The Center is Everywhere” che Dalpane esegue al pianoforte rivela un ambient minimalista che ritroveremo anche in altri successivi episodi, con le note e gli accordi che creano suggestive risonanze. Dopo due brani per sole percussioni è la fisarmonica ad entrare in scena in “Gulf Stream (North Atlantic Drift)” qui lo strumento sembra ingigantirsi fino a scomporsi in due, fino a darci l’illusione  di essere affiancato da un organo a canne. Dalpane ritorna al piano per regalarci una perla sonora di rara qualità “Mapping The Sky” infinita, avvolgente ed evocativa, sempre permeata da un alone minimalista, e poi l’inciampo ritmico nell’ostinato di “Magnifying  the Microbial World”, la struggente e sottile armonia di “Insight” e tanto altro. Sound Form coinvolge e appassiona, ascolto dopo ascolto, esce dai canoni tradizionali di un’espressività ricorrente per concezione e struttura, stabilisce un nuovo rapporto tra suono e ambiente e il suo autore si rivela come un acuto ricercatore di nuove prospettive per la musica contemporanea.


martedì 8 aprile 2014

Live at Maya Recordings Festival

Evan Parker / Barry Guy / Paul Lytton

NoBusiness
 

Dal Maya Recording Festival, edizione n.20, svoltasi dal 23 al 25 settembre 2011 a Winterthur in Svizzara, ci giunge questa registrazione live con protagonista il trio formato da Evan Parker ai sax soprano e tenore, Barry Guy al contrabbasso e Paul Lytton alla batteria. Poco più di sessanta minuti all’insegna della libera improvvisazione jazz di cui i tre musicisti sono da sempre tra i più qualificati propugnatori. Un esercizio sonoro e interattivo che non regala nulla all’estetica musicale ma che si sviluppa attraverso un’intensa performance intrisa di un’energia dirompente, frutto di un’urgenza espressiva insita nel verbo jazz del trio. L’iniziale “Obsidian” ci rivela, sin dalle prime note, la cifra stilistica del gruppo prima evidenziata che per i primi sette minuti, dei circa ventidue  della sua durata, si esplica in un ambien alimentato da una vibrante interazione ritmica, concedendosi una pausa intorno alla metà del brano quando lascia spazio a veri e propri vagiti sonori impinguati di minimalismo, fra accenni e sussurri fugaci che si intersicano e si aggrovigliano prima di tornare a dare spazio ad una incalzante frenesia che presto torna a predominare. L’ostinato del sax di Parker pervade buona parte della successiva “Chert” che durate i suoi poco più di tredici minuti, ci propone un fenomenale Guy al contrabbasso, suonato con l’archetto, in un’oasi di travolgente inventiva. Suoni viscerali e ruvidi nell’intro di “Gabbro” che impegna l’intero trio e poi un forsennato dialogo tra i due alfieri della ritmica, Guy e Lytton e uno stratosferico solo di quest’ultimo. Vicente ed essenziale nell’espressività del trio la propulsione ai fiati di Parker, incessante il suo contributo, il suo tracciare circonferenze dinamiche avvolgenti, il suo rilasciare impulsi come bagliori taglienti in un mare magnum di stimoli da strutturare in assoluta libertà.

lunedì 24 marzo 2014

Meets Zappafrank

Orchestra Spaziale

A Simple Lunch


Ripensare l'opera di Zappa, riscriverne le partiture, riarrangiarne le parti, reinterpretarla alla luce delle esperienze musicali che la storia della musica ha evidenziato in questi anni è di certo una tentazione, un cruccio per ogni musicista attento alla contemporaneità. L'esperienza dell'Orchestra Spaziale di cui vado ad occuparmi è certamente una delle più positive in tal senso e giunge a noi, adesso, grazie all'attività della A Simple Lunch neo etichetta discografica indipendente con sede a Bologna, diretta da Marco Dalpane, bolognese, musicista dalle ampie vedute e dalle mille attività, attento alla classica così come alla contemporanea, al jazz e a tutto ciò che ha a che fare con le sette note. Meets Zappafrank è un progetto nato nel 2000 che, come racconta Giorgio Casadei nelle note di copertina, fu suggerito dal musicologo Giordano Montecchi  nell'ambito della rassegna Il suono e l'onda in programma quell'anno a Reggio Emilia, il quale immagino un omaggio al grande Frank Zappa e identificò nell'Orchestra Spaziale l'ensemble ideale per poterlo realizzare. Un progetto dispiegatosi nei cinque anni successivi con una serie di concerti ed esibizioni pubbliche per poi essere, successivamente in studio, definito con una serie di revisioni e remix fino a renderlo un'opera discograficamente fruibile. Una selezione di undici brani che abbracciano i due periodi più significativi dell'era zappiana ovvero l'esperienza con i Mothers of Invention e quella con il Joe's Garage che fa rivivere lo spirito dell'indimenticabile Frank a partire dall'iniziale “Regyptian Strut” pomposa e dilagante subita seguita dalla dirompente “Let's Make The Water Turn Black” introdotta dal fraseggio lirico del sax tenore di Marco Zanardi e che prelude all' esordio della singolare vocalità di Vincenzo Vasi in “The Torture Never Stops” che ricorda, con la giusta enfasi, quella di Zappa ma senza scontate scimmiottature. Straripante poi, nella seconda parte del brano, il dialogo fra la chitarra di Alessandro Lamborghini e la voce dello stesso Vasi in una orgia sonora lancinante e partecipata. Ogni brano, ogni frazione esecutiva riporta viva e presente la magia del grande genio italo americano, pur nella costante sovrapposizione, alle strutture basi dei brani, di dinamiche jazzistiche che vedono riservare notevoli spazi all'improvvisazione. E’ ciò accade, ad esempio, in “Uncle Meat / Right There” che vede in primo piano la esclusiva dialettica del mai dimenticato Alfredo Impullitti al pianoforte. Sono varie le peculiarità riscontrabili nei vari brani, nella maggior parte dei casi densi di improvvisi cambi di tempo e di ambient, difficili peraltro da descrivere in una recensione, allo stesso modo dei soli, senza rischiare di annoiare il pur dedito lettore. Il tutto per il fatto che nel progetto sono stati coinvolti ben 20 musicisti che si sono alternati nei vari concerti e tra i quali vanno citati Giorgio Casadei che ha curato gli arrangiamenti e la direzione orchestrale oltre a suonare la chitarra elettrica nonchè Marco Dalpane che ha suonato in alcuni brani il pianoforte e le tastiere e curato la produzione insieme a Riccardo Nanni. Quella che mi ritrovo ad ascoltare si delinea come un’opera singolare e coraggiosa che va ascoltata senza pregiudizi e con dovuta attenzione. Solo in tal modo è possibile carpirne la valida essenza.