mercoledì 5 giugno 2013

Aquarius

Nicole Mitchell’s Ice Crystal

Delmark


E’ ricca la discografia della flautista Nicole Mitchell chicagoana doc. oggi trasferitasi in California dove insegna, presso l’Università di Irvine, tecniche di composizione e improvvisazione. Ma è con musicisti della città del vento che ha realizzato questo suo ultimo lavoro attraverso il quale ci presenta il suo nuovo quartetto “Ice Crystal” con Jason Adasiewicz al vibrafono, Joshua Abrams al contrabbasso e Frank Rosaly alla batteria. Un altro dei tanti ambiti in cui si muove una musicista molto legata all’icona principe della storia musicale di Chicago, l’AACM, l’associazione per l’avanzamento della musica creativa di cui è membro fin dal 1995 e di cui negli anni scorsi è stata anche presidente. In questo cd la flautista percorre sentieri africaneggianti, ai quali è da sempre legata, ma non rinuncia ad programmate interazioni free che già in altre esperienze l’hanno vista coinvolta. Poi da spazio ai suoi fraseggi variopinti, dalle sfaccettature liriche, sinuosi,  ma anche alle sue incursioni volteggianti a disegnare aloni sonori che si perdono nell’aria. E ancora va detto, come peraltro è riportato sulle note del libretto che accompagna il cd, che il suono del quartetto si ispira alla storica collaborazione fra Eric Dolphy e il vibrafonista Bobby Hutcherson nel famoso album del ’64 “Out To Lunch” ma con chiare influenze del verbo jazzistico della Chicago contemporanea. Ed è così che il cd, stuzzicando la curiosità che una tale affermazione suscita, scorre piacevolmente brano dopo brano evidenziando le qualità strumentali e compositive della Mitchell, nonché il conturbante sound del vibrafono di Adasiewicz. “Yearning” si rileva ipnotica e dagli umori world, marcata ritmicamente dal duo Abrams-Rosaly mentre “Aquarius” title track dell’album, di seguito, si muove su coordinate free con un’abrasiva intro di Abrams all’archetto  che apre all’interazione fra i componenti l’intero quartetto, a sua volta preda di un vortice improvvisativo dove ognuno si esprime in relazionata libertà. Le sfaccettature e l’introspezione di “Above The Sky” con i suoi interludi e il travolgente finale, elevano l’essenza musicale della produzione che si chiude con una citazione, recitata all’interno di “Fred Anderson” del mai dimenticato musicista, omaggiato proprio con un brano che porta il suo nome da Calvin Gantt, spoken word per l’occasione e marito della Mitchell nella vita.


martedì 4 giugno 2013

Chants

Craig Taborn Trio

Ecm


Ha il piglio del musicista geniale il pianista Craig Taborn titolare anche di un album di piano solo Avenging Angel di cui ho scritto in questo post lo scorso anno e di numerose collaborazioni tra le quali la recentissima con il sassofonista Chris Potter nell’album The Sirens. Ora rieccolo in trio coadiuvato dal contrabbassista Thomas Morgan e dal batterista Gerald Cleaver ancora per l’etichetta tedesca Ecm di Manfred Eicher. Nove composizione autografate dallo stesso pianista che  travalicano i confini del jazz per affrontare dinamiche ampie, mai circoscritte, che accolgono elementi anche di altre  espressività musicali. Taborn si spinge ovunque lo conduce la sua profonda ispirazione e traccia percorsi di grande intensità alternando strutture ritmiche circolari, a volte ostinate, a porzioni minimaliste in cui il suo pianoforte pennella eleganti tracciati lirici accompagnato dal sussurro delicato della sezione ritmica. Il pianista sviluppa il suo linguaggio influenzato da umori cameristici e dal jazz di stampo nord europeo  con Morgan e Cleaver che dall’alto delle loro oramai riconosciute sensibilità artistiche, raccolgono al volo gli stimoli rilasciati dal leader che cerca costantemente e ottiene, con un’invidiabile soluzione di continuità, un dialogo fitto fatto di aperture e rimandi armonici di rincorse e di pause il tutto a comporre i contorni di un’opera di comprovata validità che colloca ormai indiscutibilmente il pianista tra i grandi del jazz contemporaneo.


sabato 25 maggio 2013

Time Travel

Dave Douglas Quintet

Greenleaf Music


Per il trombettista Dave Douglas prosegue  il riemergere sulla scena jazz internazione da dove per la verità non era mai del tutto scomparso bensì sicuramente finito in secondo piano negli scorsi anni dopo lo splendido e antecedente periodo che lo aveva visto in prima fila, nell’abbracciare avanguardie contaminanti, con altri generi, in parallelo all’intensa produzione con i Masada di John Zorn. Un riemergere iniziato lo scorso anno con un album insolito, per uno come lui, inciso con lo stesso gruppo protagonista di questo cd ma con l’aggiunta di una vocalist di estrazione folk e country, Aoife O'Donovan, e ricco di brani intrisi di misticismo dedicati alla madre all’epoca appena scomparsa. Oggi invece Douglas si ributta con determinazione nell’ambito jazzistico a fianco di Jon Irabagon (sax tenore); Matt Mitchell (piano); Linda Oh (contrabbasso); Rudy Royston (batteria).
Ed è un bel sentire, una spumeggiante ondata di geometrie jazzistiche che guardano indietro con profondo riguardo alla tradizione ma che si impinguano, nel contempo, di una vibrante energia innovativa che fa tesoro anche dell’importante passato del trombettista di Montclair che dall’alto della sua immensa esperienza nell’arte dell’innovazione jazz sembra aver maturato la saggezza dell’età, cinquant’anni già compiuti per lui. Una saggezza che garantisce una riuscitissima sintesi che si delinea, brano dopo brano, come caratterizzata da una inaspettata orinalità.  Di grande ausilio ed operanti in ideale sinergia con il leader sono anche: Irabagon che sembra aver messo da parte una buona dose della sua urgenza espressiva per divenire sempre più accurato ed sfaccettato nella sua espressività al sax; Mitchell perfetto al pianoforte con fraseggi e contrappunti vigorosi e con soli dalla ritmica incalzante; Royston alla batteria che sa magnificamente infoltire le improvvise accelerazioni  temporali dei fiati accanto alla discrezione interpretativa della raffinata contrabbassista Linda Oh. Bentornato Dear Dave! continua così per altri album ancora.

martedì 16 aprile 2013

Skull Sessions

Rob Mazurek Octet

Cuneiform Records 


Sembrerà un’ossessione, un’incondizionata ammirazione, da parte del sottoscritto, per uno dei musicisti più innovativi del jazz contemporaneo, quel Rob Mazurek, trombettista, da Chicago, fortemente innamorato del Brasile dove ha vissuto negli ultimi otto anni. Ora Mazurek è tornato nella città del vento dove continua a tessere preziose tele musicali che irrorano la sua già ricca discografia. Una discografia che, credetemi, contiene straordinarie produzioni realizzate con varie formazioni e in diversi contesti, da qui la mia ammirazione non incondizionata ma certamente critica che voglio condividere con voi che frequentate questo blog. Quest’ultimo tassello discografico arriva per commissione dagli organizzatori di una mostra di pitture a S.Paolo, Brasile, durante i mesi di agosto e settembre 2012, denominata We Want e dedicata al grande Miles Davis. A Mazurek era stata richiesta una reintepretazione di alcuni brani dell’opera del mai dimenticato trombettista e lui invece sorprende tutti proponendo  cinque brani originali scritti per l’evento ed eseguiti con un ensemble che riunisce: John Herndon alla batteria, Jason Adasiewicz al vibrafono, Nicole Mitchell ai flauti, ovvero una parte dell’Exploding Star Orchestra; i sudamericani  Mauricio Takara, percussioni  e cavaquinho (una sorta di ukulele brasiliano);  Guilherme Granado, tastiere ed elettroniche, entrambi questi due ultimi, membri con il nostro dei São Paulo Underground; Carlos Issa alle chitarre e lo svizzero, da anni trapiantato in Brasile, Thomas Rohrer, rabeca (viola brasiliana) e c melodica sax. L’opera che ci ritroviamo è ancora una volta intrisa di genialità, Mazurek non si limita a comporre musiche affini al maestro di riferimento, soggetto della mostra, bensì approfitta dell’occasione per tracciare un progetto che appare come un’ulteriore evoluzione e sintesi dei tanti filoni già percorsi in precedenza. C’è anche in questo una forte componente ritmica che sembra unire la frenesia sudamericana con la liberta del free, c’è un forte intreccio di ostinati sonori lasciati alla libera interpretazione dei singoli. C’è una grande spazialità espressiva in cui ogni musicista si muove secondo il coinvolgimento che riesce a percepire durante lo svolgersi esecutivo. L’ottetto guidato dal trombettista crea un flusso sonoro costante e intenso che sembra inondare l’ascoltatore. Nel magma sonoro che avanza si infilzano i fraseggi dei fiati di Mazurek e della Michell, i primi ricchi di umori davisiani, i secondi intrisi di tribalismo africano. Svetta poi a spezzare questa continuità un magistrale dialogo, tra il vibrafono di Adasiewicz e la tromba del leader, impinguato di liricità struggente, all’interno di “Passing Light Screams” terza delle cinque tracce contenute nel cd. Il resto è ancora un torrente inondante di suoni e ritmi, un caleidoscopio luminescente e ricercato nell’estemporaneità densa di creatività dove c’è posto per la connivenza di elettronica e strumenti acustici dove si celebra ricerca e rivalutazione di identità espressive dense di tradizione.

Giuseppe Mavilla