giovedì 31 ottobre 2013

Transylvanian Concert

Lucian Ban / Mat Manieri

Ecm
 

Un newyorkese doc, Mat Manieri, e uno da adozione perché rumeno d’origine, Lucian Ban. Insieme, in concerto, il 5 giugno del 2011, al Culture Palace di Targu Mures in Transilvania. Due musicisti eterogenei per estrazione musicale. Il primo, figlio del sassofonita Joe Manieri è un esponente di punta dell’avanguardia newyorkese, suona il violino e la viola e vanta frequentazioni prestigiose nonché una sostanziosa discografia come leader e come sideman. Lucian Ban è invece un pianista di estrazione classica che di recente ha omaggiato il suo famoso connazionale George Enesco con un album di reintepretazione, in chiave jazz, di alcune composizioni di quest’ultimo circondandosi per l’occasioni di alcuni jazzisti come Ralph Alessi, John Hebért ed altri. Di questa incisione potete leggerne qui la recensione. Il concerto in Transilvania, riproposto in questo cd, ci presenta il duo alle prese con sei composizioni originali, una di Manieri, quattro di Ban, una scritta a quattro mani e il riarrangiamento di un brano tradizionale quale è  “Nobody Knows The Troubles I’ve Seen”. L’album è tra i lavori più suggestivi e intriganti di questi ultimi mesi ed evidenzia il pianismo di Ban denso di riferimenti classici, ma aperto a fraseggi ritmici prettamente jazzistici così come sempre puntale e opportuno nel contrappuntare i vorticosi percorsi della viola di Manieri. Quest’ultimo riesce magnificamente a dare un’ariosità lirica al suo strumento a corde e nel contempo non disdegna di variarne spesso la timbrica. La sua espressività è a volte struggente specialmente se accostata al fraseggio lirico del pianoforte di Ban. La complicità è totale fra i due protagonisti già a partire dalla prima traccia “Not That Kind of Blues” un blues celato in vari momenti del brano tra la struttura ballad del brano stesso.  E poi la successiva “Harlem Bliss” che si consuma tra umori struggenti in un ambient che richiama la tradizione musicale dell’europa dell’est. E ancora da citare la viscerale emozionalità della reinterpretazione di “Nobody Knows The Troubles I’ve Seen” e i toni più marcatamente jazz di “Darn”. Ci saranno giorni freddi e piovosi in questa stagione che avanza e apre le porte al duro inverno e allora lasciatevi accarezzare e godete delle delicate e intense emozioni che quest’opera può regalarvi.


venerdì 25 ottobre 2013

Arc Trio

Mario Pavone

Playscape



E’ il 1° febbraio 2013 quando il contrabbassista Mario Pavone riunisce il suo trio con Craig Taborn al pianoforte e Gerard Cleaver alla batteria. L’appuntamento si consuma al Cornelia Street Cafe di New York  e da quella session ecco  il relativo cd, che in questi giorni ascolto frequentemente dal mio player di casa o dal mio dispositivo mobile. Produzione superlativa che celebra la vitalità e la profonda connessione che i tre musicisti  operano con metodiche e dinamiche ritmiche propriamente afroamericane.  Ci si trova in qualche modo di fronte a  dei puristi del verbo jazz  che danno vita ad una performance vissuta con intensa partecipazione da tutto il combo. Arc Trio traccia, nei fatti, solchi e percorsi molti vicini a quelli di musicisti come Andrew Hill, a cui verosimilmente è dedicato il brano d’apertura, e  Paul Bley, come  riportano le note di copertina.  L’ascolto mette in evidenza le grandi doti del leader avvinghiato al suo contrabbasso in un esercizio esecutivo denso di ritmo e sfumature sottilmente liriche che,  per quanto cupe ed essenziali, affascinano perché debordanti di un’essenza primordiale e definitivamente jazz.  Protagonisti quanto lui sono anche Taborn e Cleaver, oramai approdati nell’olimpo dei  grandi del jazz contemporaneo, con il pianista intento a cesellare ragnatele di note fittissime con frequenti   variazioni ritmiche, spesso in forma di contrappunto altre volte esposte con fraseggi impeccabili. E che dire di Cleaver, drummer di gran pregio, accorto e sensibile ad ogni metamorfosi ritmica, istrionico e mai debordante, sobrio ma attinente in ogni contesto. I temi sono brevi ed accennati all’inizio e alla fine di ogni brano, ma  all’interno la performance si fa straordinariamente coinvolgente,  pervasa da un costante interplay e i tre musicisti si riservano ampi spazi  per l’improvvisazione e per i solo. Un’opera assolutamente essenziale per apprezzare gli elementi costitutivi dell’espressività jazz che Pavone e soci impinguano di esclusiva modernità.


Ascolta i sampler qui

sabato 19 ottobre 2013

The Sirens

Chris Potter

Ecm


Ispirato da Omero il sassofonista e clarinettista Chris Potter ci ha consegnato all'inizio di questo 2013 un album di rara armonia, un misto di liricità, decantata con intenso acume attraverso i suoi strumenti a fiato preferiti e la peculiarità di un quintetto che include due pianisti che si muovano su versanti eterogenei e che danno al suono dell'ensemble quella specificità esclusiva che combina tratti prettamente bop ad altrettanti che si caratterizzano invece come decisamente cool. Ecco allora le singolarità di questo quartetto formato oltre che dal leader ai sax soprano e tenore nonché al clarinetto basso, da Craig Taborn e David Virelles rispettivamente al piano e al piano preparato, celeste e harmonium; Larry Granadier al contrabbasso; Eric Harland alla batteria. La liricità così cara a Potter è già in bella mostra in “Wine Dark Sea” prima selezione del cd, contrappuntata dalle incursioni tastieristiche di Taborn, mentre nella successiva “Wayfinder” la fluidità propria del brano è arricchita  dagli inserti di piano preparato di Virellas, musicista cubano che si sta notevolmente affermando nell’ambiente jazzistico newyorkese. L’ascolto ci imbatte nelle struggenti atmosfere della title track con il leader al clarinetto basso e Granadier all’archetto. Da qui in avanti è tutta una serie di conferme di quanto già detto per questo album strutturato con grande attenzione e ciò nonostante godibile e per certi versi affascinante proprio per quanto già detto in apertura. 

 Giuseppe Mavilla

venerdì 11 ottobre 2013

Gen Himmel

Satoko Fujii

Libra Records

Dopo vari album in duo, trio, quartetto e anche quale conduttrice di diverse orchestre, la pianista Satoko Fujii torna al piano solo per la terza volta dopo gli episodi datati 1996 e 2003 e titolati rispettivamente Indication e Sketches, sempre che non mi sfugga qualche dettaglio della sua innumerevole discografia. Questo Gen Himmel è un gioco intimo, condito di effusione totale verso l’amato pianoforte, strumento capace di rapire artisticamente ogni grande musicista come la Fujii. Perché la pianista giapponese, per chi non la conoscesse (non è il caso degli abituali frequentatori di questo blog) è oggi tra i musicisti più interessanti che operano nell’ambito del musica contemporanea. Il suo linguaggio espressivo è multiforme e travalica ogni possibile etichettatura. La sua attività artistica è prolifica e in piú la nostra non disdegna impegni e confronti con musicisti in grado di stimolarla e arricchirla artisticamente. Ma torniamo a Gen Himmel e all’aspetto più poetico dell’espressività della musicista giapponese. L’album si apre con la ricerca di effetti sonori da piano preparato e come spesso lei ama fare eccola strofinare sulle corde, nel cuore dello strumento, quasi a voler testare lo stato d'animo del suo amato compagno di scena. Di seguito una sequenza d'accordi traccia un indefinito tema per il brano che da il titolo al cd. La pianista poi mostra il suo layout cameristico in “Hesitation” e recupera profumi e colori orientali, che tanto gli appartengono, in “Take Right” brano che evidenzia un altro aspetto tipico del suo linguaggio: la creatività e l'estemporaneità della sintassi jazzistica. C'é poi il minimalismo di “Ram” gli umori struggenti e la maestositá di “A.S.” nonché le tensioni miste a riflessioni sussurrate e  ad irruenze dirompenti in “Dawn Brown”. Questo l'assortito menú di un incontro da incorniciare tra una straordinaria musicista e il suo pianoforte e di un album altamente raccomandabile.

domenica 6 ottobre 2013

Metamorfosi

Nicola Fazzini Quartet

Caligola Records


Milanese di nascita, veneto di adozione, il sassofonista Nicola Fazzini è oggi fra i più illuminati musicisti jazz europei. Attivissimo oltre che in campo discografico il sassofonista è un autorevole didatta, non solo del suo strumento ma anche  di teoria e musica d'insieme presso la scuola "T. Monk" di Mira (Ve), di cui è anche direttore artistico. Quest’ultimo impegno è lo stesso che Fazzini ha assunto con la rassegna JAM che si svolge sulla Riviera del Brenta e nel circondario Miranese il cui programma comprende concerti conferenze e workshop. Numerose le produzioni discografiche tra le quali mi piace ricordare l’eccellente IdeaF (potete leggerne la recensione qui) inciso con XYQuartet di cui il nostro è leader insieme ad Alessandro Fedrigo, bassista, ideatore del progetto nusica.org. Quello di cui vado ad occuparmi adesso è il nuovissimo secondo cd che Fazzini incide con il suo quartetto per l’etichetta veneziana Caligola, un quartetto composto, oltre che dallo stesso Fazzini al sax, da Riccardo Chiarion, chitarra, Stefano Senni, contrabbasso e Luca Colussi, batteria. Un cd che comprende sette composizioni, di cui ben sei nate dalla fervente vena compositiva del leader, con l’aggiunta di una riuscita interpretazione della “Black Narcissus” di Hendorsoniana memoria. Va subito rivelato il felice equilibrio che Fazzini ed il quartetto riescono a delineare tra passato e presente, tra uno sguardo rivolto ai fermenti musicali della New York più downtown e un layout certamente moderno di jazz che però ingloba dinamiche e armonie sensibilmente vicine alla tradizione, senza per questo risultare scontato. Le prime tre tracce del cd sono occupate dalla suite “Metamorfosi” architettata in tre sfaccettate sequenze che partendo da una forma jazzistica a metà strada tra jazz e rock della prima parte, si sviluppa attraverso una splendida ballata, sinuosa e lirica quanto basta ad evidenziare le notevoli doti di Fazzini. Il terzo episodio della suite è introdotto dal groove percussivo di Luca Colussi sul quale si inserisce il sax alto del leader. Frammenti esclusivi di dialogo tra i due contraddistinguono questa parte dell’incisione, mentre il brano assume contorni ipnotici. Con l’inserimento del contrabbasso di Senni e della chitarra elettrica di Chiaron il brano delinea umori da world music. Ancora da evidenziare la fremente atmosfera de “il Cubo di Escher” con i conturbanti fraseggi del sax, lo scoppiettio ritmico della batteria, l’incedere fluido del contrabbasso e della chitarra in un gioco di interplay spalmato tra scrittura e improvvisazione. E’ poi un splendido solo di Fazzini ad introdurre “Low Moon” la cui essenza lirica nasce dalla rielaborazione del giro armonico di  How high the Moon” notissimo standard jazz. Fazzini e il suo quartetto ci regalano un album di alta levatura jazzistica, mi auguro che l’attenzione degli appassionati possa premiarlo per come merita.